Per quanto possiamo ritenerci strenui difensori della comunicazione politica, sostenitori della bella grafica e del bel manifesto, non commettiamo l’errore di credere che “l’abito faccia il monaco”. Il consulente politico, in quanto anche uomo (o donna!) di marketing, sa che l’involucro non vale nulla senza un vero prodotto. E il brand, il marchio non equivale semplicemente ad una sommatoria di segni grafici e colori accattivanti. I simboli sono messaggi, e i messaggi sono “codificati” sulla base di obiettivi e di target specifici.
Ciò vale ancor di più in politica, dove la sigla o il simbolo di partito costituiscono il legame identitario e/o consuetudinario nelle relazioni tra gli elettori e il partito e tra il partito stesso e i militanti che lo compongono. Sartori nel 1976, definendo i partiti come gruppi politici capaci di collocare candidati per le cariche pubbliche attraverso la competizione elettorale, afferma che questi ultimi, per partecipare alle elezioni, devono essere identificati da «un’etichetta ufficiale», ossia un simbolo (label)[1].
La sigla o il simbolo di partito sono una sintesi utilissima, perché semplifica la scelta degli elettori in un ambiente altrimenti caotico, e costituisce una sorta di certificato di garanzia non solo sulle posizioni politiche del candidato, ma tra promesse e attuazioni. Il simbolo di partito, quindi, va considerato come il marchio nel mercato dei consumatori, un mercato concorrenziale dove il brand acquisisce un valore differenziatore importante e la base per la fidelizzazione dei clienti. Oppure, per restare nella metafora del ‘mercato politico-elettorale’, sono note le controversie sulla proprietà del simbolo in occasione della fine di un partito o di una sua scissione (si pensi al caso della Democrazia Cristiana e del partito Comunista Italiano). Sorgono infatti aspre contese sulla proprietà del simbolo, proprio perché si sa che una porzione di elettorato fedele vota, qualunque sia la dirigenza, il simbolo di partito cui è affezionata.
È evidente, dunque, il valore aggiunto costituito dal logo di un partito e, nel caso del Partito Democratico, modificare il proprio simbolo, ora, potrebbe essere un errore. Sono oramai note, infatti, le intenzioni del segretario Pier Luigi Bersani che vorrebbe dare una nuova immagine al suo PD, cancellando gli ultimi retaggi veltroniani anche dal logo/simbolo.
Un’operazione delicata in una fase dove l’identità del partito democratico già traballa.
È davvero necessario, modificare quello che finora è stato il simbolo seguito da migliaia di elettori e di militanti? Perché interrompere un processo di fidelizzazione già in atto?
Per ricominciare tutto da capo? Per tentare di attirare nuovi elettori?
Il rischio è alto, si rischia di perdere coloro che si sono affezionati a questo simbolo, che ci credono anche se nutrono spesso dei dubbi su questa formazione politica. Proprio un cambiamento del simbolo, in questo momento, potrebbe aumentare tali dubbi e allontanare i fedelissimi. Bisogna però sottolineare, che ciò che li allontana di più, è il fatto che si preferirebbe ci fosse una maggiore concentrazione sulle proposte del PD, piuttosto che una diatriba su un logotipo poco accattivante.
I limiti del simbolo democratico sono innegabili[2], ma crearne uno completamente nuovo credo sia azzardato. Bersani probabilmente, in tempi di guerriglia interna, vuole contrassegnare il partito con un’ulteriore impronta della sua leadership. Traghettare l’organismo politico verso un nuovo DS allargato.
In ogni caso, per segnare una nuova fase del Partito Democratico, di certo non basterà rinnovare in toto il simbolo. Sono le scelte politiche che segnano il cambiamento. Per incidere sul logo, invece, sarebbe preferibile al massimo un restyling.
Marina Ripoli
[1] Sartori G. (1976), Parties and Party Systems. A Framework for Analysis, Cambridge, Cambridge University Press, p. 63.
[2] Asettico, spigoloso, freddo… Secondo alcuni guru della pubblicità si tratta di un simbolo incompleto: la “d” in bianco trasmette un senso di incompiutezza. Manca una suggestione visiva perché, invece di un simbolo, si è scelto un logotipo didascalico che non apre uno spazio visivo. Infine, il simbolo del PD appare molto simile al logo del sito olandese http://www.ad.nl/.