Archivi del giorno: aprile 23, 2010

Metastasi democratiche

Tempi duri per il partito di maggioranza. Vittorie su vittorie e poi? Il Presidente della Camera ha l’ardire di alzare la voce, di farsi ascoltare. Perfino la moglie di Almirante è contro di lui.
C’è chi era già pronto a gioire quando ha sentito qualcosa squarciare il velo di perfezione che copriva il partito dell’amore. Una voce fuori dal coro ha fatto provare per un attimo l’ebbrezza che un po’ di democrazia interna scuotesse anche il Pdl. E invece, Fini è solo! Nel Popolo della Libertà le correnti sono metastasi e le voci di dissenso si curano in fretta, al massimo le si espelle!

Ma cosa è accaduto all’ex leader di An? Si sarà accorto all’improvviso che stava perdendo ad uno ad uno tutti i suoi riferimenti all’interno del partito? [1] Oppure ha avuto un rigurgito di dignità per non essere mai stato ascoltato in questi mesi?

E come mai l’idea di una corrente minoritaria nel Pdl a Berlusconi proprio non va giù? Come spiegargli che le correnti, intese come fattori patologici all’interno di un corpo partitico, diventano tali soprattutto se non riconosciute e ascoltate nell’ambito della dialettica democratica?
Berlusconi, invece, vorrebbe proprio non ascoltarle e ne farebbe volentieri a meno. Nel suo immaginario è come se vedesse entrare nella città del Pdl un cavallo di Troia ben congeniato per sabotare ogni suo progetto politico. Come chiarirgli che in realtà ci può essere diversità di opinioni e di interessi tra i membri di uno stesso partito? Che possono esistere subculture differenziate, correnti organizzate, il dibattito interno, la democrazia?[2]

La verità è che Berlusconi è lungimirante e sa che ad ogni modo la costituzione di una corrente – anche se di minoranza – può ledere la sua leadership e la sua libertà di movimento. Sa che potrebbe non essere più sovrano assoluto e che a quel punto dovrebbe combattere contro un’anima del partito, contro quell’idea di destra moderata e liberale, lontana dalla sua concezione plebiscitaria e carismatica della politica.
Insomma, l’idea di combattere in casa lo infastidiste terribilmente e così scatena in campo bastonature mediatiche, campagne acquisti tra i finiani, interventi in Direzione Nazionale studiati per isolare il Presidente della Camera.
Berlusconi non ammette che si ferisca il corpo del potere, il corpo del partito, il suo corpo. Un eventuale cedimento avrebbe significato un cedimento strutturale della sua creatura monocefala e l’emergere di sempre nuove posizioni contrapposte all’interno del partito. No, il berlusconismo non è questo!

E Fini? Dalla rabbia non riesce nemmeno a restar seduto nella sua poltroncina in prima fila. Alla Direzione Nazionale, il Presidente della Camera perde il suo aplomb, perde il controllo, ed è difficile immaginare una diarchia serena nel futuro del Pdl.

Sul fronte del Pd, invece, niente di nuovo. Di battaglie interne oramai è saturo, per non parlare delle correnti e delle fondazioni che gravitano intorno al pianeta democratico. Il silenzio di questi giorni è assordante, il Lingotto oramai è lontano. Prodi ancora alla ricerca della forma partito ideale più o meno federale. Veltroni che riparte timidamente con il lancio di una nuova fondazione (la nona nel panorama del partito).[3]
Così se nel Pd la democrazia interna si trasforma in un coacervo di correnti e leadership policentriche, causa del rachitismo di questo partito; nel Pdl di correnti non ne vogliono e vanno avanti a colpi di plebiscitarismo.
C’è chi troppo e chi niente!

Marina Ripoli


[1] L’ex leader di An ha scelto la carriera istituzionale alla Camera e ha lasciato gli incarichi di partito nelle mani dei “suoi” che invece  non hanno alcuna intenzione di minare il progetto del Pdl e hanno preparato un «correntone lealista» da contrapporgli. Parliamo di Ignazio La Russa, l’unico ex An[1] dei tre coordinatori nazionali (gli altri sono i fedelissimi berluscones Bondi e Verdini[1]), e degli altri colonnelli Gasparri, Matteoli, Meloni, Alemanno.

[2] Le continue avvisaglie dell’insofferenza finiana si sono manifestate parallelamente, e in modo costante, all’affermarsi dell’ingombrante matrice berlusconiana nella struttura organizzativa e valoriale pidiellina (vd. l’articolo L’insofferenza finiana).

[3] Si chiama “Democratica” la nuova fondazione di Veltroni dedicata alla formazione e alla crescita delle nuove generazioni. Nascerà tra maggio e giugno.

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Genesi e struttura del Popolo della Libertà

Il Popolo della Libertà nasce ufficialmente con il Congresso costitutivo del 27 marzo 2009[1] attraverso la fusione di: Forza Italia (compresi Circoli della Libertà, Circoli del Buongoverno, Decidere!) e Alleanza Nazionale in primis, più Nuovo Psi, Popolari liberali, Azione sociale, Destra libertaria, Cristiano popolari, Riformatori liberali e Italiani nel Mondo. Aderiscono successivamente: Per la Liguria e Movimento per l’Italia. Ne sono fondatori e/o sostenitori, ma mantengono la loro autonomia: Democrazia Cristiana per le Autonomie, Partito Pensionati e Partito Repubblicano Italiano.

Si tratta di un numero notevole di partiti e movimenti che si uniscono grazie alla ‘visione’, o meglio grazie alla ‘lucida follia’ di un leader[2] che il 18 novembre 2007, nell’exploit della rivoluzione del predellino, annuncia la formazione del nuovo partito e lo realizza nel corso di due anni.

Lo Statuto approvato il 29 marzo 2009 è cucito sulla forte personalità del suo fondatore. Descrive infatti una struttura gerarchica e verticale, incentrata sulla figura del Presidente, il quale viene eletto dal Congresso anche per alzata di mano (art.15 dello Statuto), e dispone di pieni poteri[3]. Il leader, oltre alla definizione delle linee politiche e programmatiche, guida l’Ufficio di presidenza – vera e propria cabina di regia del Pdl – e convoca la Direzione e il Consiglio nazionale.

Dell’Ufficio di presidenza fanno parte i capigruppo e i vicecapigruppo di Camera e Senato, un europarlamentare e 23 membri eletti dal congresso su proposta del presidente, il quale all’interno di questo gruppo individua i tre coordinatori nazionali, ad oggi Sandro Bondi, Ignazio La Russa e Denis Verdini. A loro è affidata l’organizzazione nazionale e periferica, oltre all’attività della struttura centrale e di quelle territoriali. Spetta ai tre coordinatori dare attuazione alle deliberazioni del presidente del partito e dell’Ufficio di presidenza ai quali sottopongono anche le nomine degli organi dirigenti e le candidature. Tra gli altri compiti, sono previsti “in via esclusiva” il potere di presentare liste e candidature a livello nazionale e locale.

La Direzione nazionale è composta da 120 membri eletti dal congresso e ne fanno parte, di diritto, coloro che siedono nell’Ufficio di presidenza. Tra i membri della Direzione e del Consiglio sono poi nominati dal Presidente su proposta del comitato di coordinamento i responsabili di settore (Organizzazione, Enti locali, Settore Elettorale, Adesioni, Pari Opportunità, Internet e nuove tecnologie, Comunicazione, Formazione, Iniziative movimentiste, Italiani nel mondo, Difensori del voto e rappresentanti di lista, Portavoce, Responsabile giovani (scelto autonomamente secondo le modalità regolamentari dell’Organizzazione giovanile di cui all’art. 49). Il Comitato di coordinamento costituisce, inoltre, 14 Consulte che riprendono le aree tematiche delle 14 Commissioni permanenti della Camera dei Deputati.

Per quanto riguarda la struttura di base vengono riconosciute due tipologie di iscritti (elemento di rottura con gli schemi del passato): gli “aderenti”[4], ossia gli aventi solo il diritto di elettorato attivo (possono quindi votare per i delegati congressuali nell’ambito del Comune e della Provincia di residenza, e partecipare alle consultazioni e alle iniziative di democrazia diretta del partito) e gli “associati”, ovvero “i cittadini e le cittadine italiane, anche già aderenti” che, oltre a partecipare a tutte le attività del partito, esercitano anche il diritto di elettorato passivo e possono essere designati o nominati a cariche interne.

Lo Statuto del Pdl non è federale, solo le organizzazioni locali e periferiche rette da un organo elettivo hanno autonomia amministrativa e negoziale[5]. Quindi non vi è nessuna autonomia politica, né statuti regionali.

La leadership carismatica e coagulante del leader Silvio Berlusconi ha permesso, fino ad ora, l’attuazione della fusione tra Fi e An senza ostacoli e senza particolari intoppi. La struttura verticale del partito ha permesso fasi di trasformazione organizzativa più lineari e condivise, niente a che vedere con le forti spinte correntizie e policentriche del Partito Democratico[6].

Restano, però, alcune contraddizioni latenti dal punto di vista delle differenze di cultura politica e organizzativa, a cui si richiamano le due anime costituenti del Pdl, quella forzista e quella di An. È necessario sottolineare che l’organizzazione pidiellina rispecchia quasi totalmente quella verticistica e patrimonialista[7] di Forza Italia. Nel partito berlusconiano, infatti, la maggior parte degli organi collegiali era cooptata dal presidente, il quale era incoronato dall’assemblea e nominava i suoi fedeli in tutti gli organi, anche in quelli locali (i coordinatori regionali non erano eletti, bensì indicati dal presidente). Prevale, quindi, il modello organizzativo forzista su quello di An, che era sì verticale, ma non connotato da una così forte centralità del leader.

Un vero e proprio monopolio che mette fuori gioco l’anima finiana del Pdl, la quale – pur se corrosa dalla fascinazione berlusconiana[8] – si costituisce in corrente di minoranza un anno dopo la costituzione del partito. Una strategia di decentramento del potere che implicherebbe di fatto una metamorfosi organizzativa rispetto al partito – come appare ora – monocefalo e centralizzato.

E se le strategie non sono sostenute dai numeri? E se Fini ha fatto i conti senza l’oste?

I toni forti della Direzione Nazionale del Pdl e le 11 voci fuori dal coro, non lasciano intravedere nessun cambiamento, nessuna evoluzione organizzativa.

Le voci fuori dal coro vengono schiacciate. Le metastasi eliminate.
La fisiologia dell’organismo verticistico ha un buon apparato immunitario, per ora.

Marina Ripoli

 


[1] I delegati al congresso nazionale Pdl erano 6.000 (1.800 di An, 700 dei partiti più piccoli e 3.500 di FI).

[2] Fini G., Tutto merito della lucida follia di Berlusconi, su «Libero» del 29/3/2009.

[3] Il Presidente nazionale del Popolo della Libertà nomina tre coordinatori e ventotto componenti dell’Ufficio di Presidenza, i Coordinatori regionali e i Vice coordinatori regionali vicari ha l’ultima parola su tutte le candidature a tutti i livelli (art.25).  Le candidature alle elezioni nazionali, europee e a Presidente di Regione sono stabilite dal Presidente nazionale d’intesa con l’Ufficio di Presidenza, e formalizzate dai Coordinatori. Indirettamente, invece, perché nominate dal comitato di coordinamento, sono stabilite le candidature a Presidente di Provincia, a Sindaco di Grande Città o di Comune capoluogo, a Sindaco di Comune, a Presidente di Circoscrizione.

[4] Gli aderenti al Pdl devono sottoscrivere la carta dei valori e aver compiuto almeno 16 anni.

[5] Compravendita di beni immobili, di titoli, costituzione di società; acquisto di partecipazioni in società già esistenti; concessioni di prestiti; contratti di mutuo; rimesse di denaro all’estero; apertura di conti correnti all’estero o in valuta; acquisto di valuta.

[6] Anche nel Popolo della Libertà sono presenti correnti, pur se non riconosciute ufficialmente. Le diverse aree interne si rappresentano infatti attraverso fondazioni, come ad esempio Farefuturo della corrente dei Finiani, o FreeFoundation dei Post-socialisti.

[7] Il leader è anche il proprietario del partito.

[8] I leader ex An come La Russa, Alemanno, Gasparri e Meloni, hanno firmato un documento contro Fini nel quale si conferma lealtà al Pdl e a Silvio Berlusconi.

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L’insofferenza finiana

L’attuale contrapposizione tra Fini e Berlusconi ha origini antiche che affondano le loro radici in un contrasto di tipo valoriale e caratteriale. Dunque, non solo un braccio di ferro per giocarsi una posizione di maggior potere all’interno del Pdl, ma anche un’“antipatia” di fondo, mascherata in questi anni per portare avanti un progetto politico comune.

Fini, in vero, salta sulla diligenza Berlusconi – la cosiddetta carrozza del vincitore – per portare a termine la trasformazione dell’MSI da partito anti-sistema, erede del fascismo, ad An partito di governo: un percorso tutto in salita già intrapreso con il sostegno a Cossiga nel ‘91 e con le strategie elettorali di quegli anni per aumentare notorietà e visibilità dei missini. Non mancarono negli anni successivi strategie di dissenso nei confronti di Berlusconi, ma i risultati negativi di tali scelte lo portarono a stringere sempre di più l’alleanza con Forza Italia, fino a presentarsi alle elezioni politiche del 2008 sotto il simbolo del Pdl.

Il seguace di Almirante e Romualdi ha approfittato di questo percorso per modificare anche la sua immagine (da missino a politico liberaldemocratico e uomo delle istituzioni) e non ha mai trascurato la sua comunicazione affinché ci fosse sempre un distinguo tra la sua figura e quella di Berlusconi. Non si tratta solo di una tattica per mantenere all’interno del Pdl i voti di chi mal sopporta il premier, ma anche di una vera e propria esigenza personale di differenziazione necessaria. A questo è servita anche l’attività di Fare futuro, ma sono state strategiche soprattutto le continue dichiarazioni fuori dal coro pidiellino, fatte approfittando della sua carica istituzionale.

Ne sono un esempio le posizioni più morbide del Presidente della Camera sulla questione degli immigrati o le posizioni sui temi bioetici e sui diritti civili, le frizioni con il Carroccio, l’insofferenza verso un federalismo esclusionista nei confronti del Mezzogiorno, la difesa della Costituzione. Per non parlare della registrazione in cui Fini, conversando ad un convegno con il magistrato Trifuoggi, accusa il premier di confondere la leadership con la monarchia assoluta ed il consenso popolare con l’immunità nei confronti di qualsiasi altra autorità (dicembre 2009).

E non finisce qui. Nel marzo 2010, come non ricordare l’affondo di Fini sul Pdl: “Avendo io contribuito a fondare il Pdl, ci sono molto affezionato. Noi di An non eravamo alla canna del gas, il partito aveva percentuali a due cifre, ma ci siamo presi la responsabilità di dare vita ad un nuovo soggetto politico perché credevamo nel bipolarismo, nell’alternanza e nell’europeismo. Ma se mi chiedi se il Pdl mi piace così come è adesso, la risposta credo l’abbiano capita tutti, non c’è bisogno di ripeterla”.

Ora il contrasto è sulle riforme costituzionali. Il Presidente della Camera si oppone alla proposta del premier che vuole un semipresidenzialismo senza doppio turno. Come al solito i suoi spunti di discussione sono minimizzati e non diventano oggetto di dibattito all’interno del partito. Di resistere così Gianfranco Fini non ne può più! Il 15 aprile 2010 tutte le dichiarazioni di questi mesi, e di questi anni, prendono corpo in una vera e propria frattura arrivando a minacciare se non una scissione, almeno la creazione di gruppi parlamentari autonomi.

Oggi Fini, non avendo i numeri necessari per uscirne, vuole restare nel Pdl e vorrebbe battersi per creare una democrazia interna al partito, uno spazio di discussione e di negoziazione sulle linee politiche e programmatiche. Si presenta alla Direzione Nazionale del 22 aprile con l’idea di creare una corrente di minoranza. In pratica vorrebbe più spazio nel suo partito e cambiare la natura stessa del Pd. Gli faremmo subito gli auguri se non vedessimo davanti a lui una strada ardua, costellata dagli ostacoli che il premier gli ha abilmente tessuto intorno, un cammino aspro, da percorrere solo (al massimo in compagnia di 11 “pellegrini”), un avvenire difficile tanto da dubitare anche su una futura coabitazione tra i due leader!

Ma la sconfitta di oggi potrebbe essere una vittoria domani. Il berlusconismo, oggi, ha lasciato la politica alla Lega e si bea tra sondaggi di gradimento e palcoscenici mediatici. Un partito senza un progetto per il Paese – se non solo quello personalistico del suo presidente – non ha futuro; e Fini che ha preso le distanze dal premier oggi, punta in alto domani perché conta su un progetto e pensa al futuro!

Marina Ripoli 

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La politica non è una partita di calcio

In questi giorni ho letto con molta attenzione l’analisi di Angelo Ventrone, “Perché abbiamo bisogno di un Nemico?” pubblicata dalla “Rivista di Politica”.

Questa lettura mi ha convinto ancora di più a riflettere proprio su questa tematica che ritengo molto interessante.

Le domande che mi sono posto sono molte, ma cerco di andare in ordine.

Nel nostro Paese esiste una consolidata realtà: l’idea di sviluppare campagne elettorali costituite (quasi) totalmente sulla paura e sulla demonizzazione dell’avversario politico. Questa è una caratteristica sia dei partiti di centro-sinistra, con l’antiberlusconismo, sia di quelli di centro-destra in cui si cerca di sottolineare gli storici errori del comunismo e così facendo si tenta di dimostrare quali effetti dannosi comporterebbe un ritorno a quell’idea politica; oltre a questi due esempi esiste poi quello della Lega Nord che nella sua lunga storia ha sempre puntato molto sulla paura e sul fatto di demonizzare i suoi veri o presunti nemici (meridiani, “Roma ladrona”, extracomunitari, rom, ecc.). Davanti a una situazione del genere, che come afferma Ventrone, “(…) è durata più a lungo che nelle altre democrazie occidentali”, bisogna, secondo il mio modesto parere, capire innanzitutto dove ci ha portato agire in questo modo e soprattutto quindi quali sono state le conseguenze per il Paese. Il risultato più visibile è un’Italia molto frammentata che cerca di “estremizzare” la propria posizione già molto marcata rispetto al confronto bipartisan soprattutto su tematiche di un interesse comune. In una situazione così radicata diventa difficile sia elaborare buone e utilissime nuove politiche sia soprattutto sviluppare ottime strategie di comunicazione politica. Gli amanti di questa professione si trovano quindi molto più in difficoltà rispetto ai loro colleghi stranieri, soprattutto inglesi e statunitensi, in quanto è sempre più arduo cercare di concentrarsi in modo efficace su tematiche urgenti ed indispensabili per i cittadini, perché, come detto, la radicalizzazione si è portata all’eccesso. Il tentativo che bisognerebbe fare è vivere la vita politica non come una partita di calcio, in cui esiste il sano sfottò tra le tifoserie (ovviamente sempre all’interno delle regole e della civiltà), e l’amore estremo per la propria squadra, ma pensando a quello che è più utile per il Paese anche se una determinata proposta viene sviluppata dalla parte politica a noi avversa, senza invece bocciarla a priori.

La speranza è che anche nel nostro Paese si possa crescere sotto questo punto di vista e iniziare a confrontarsi nel merito delle questioni concrete rispetto a ideologie diventate davvero troppo vecchie!

Luca Checola

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