Campania 2010: il simbolico De Luca

Riflessioni sull’uso dei simboli nella comunicazione politica del candidato presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca

È già stata più volte evidenziata, e non voglio qui soffermarmi sulla diatriba ancora in corso, la scelta di Vincenzo De Luca di non apporre sui suoi manifesti elettorali il simbolo del suo partito d’appartenenza e di quelli della coalizione che lo sostiene.

Molti hanno scritto, malignando, della necessità di nascondere il passato politico, suo e del Governo regionale campano. Eliminando i simboli di partito, tra l’altro abbondantemente presenti nei numerosi manifesti elettorali dei candidati al Consiglio, De Luca avrebbe così voluto rinnegare il PD, cercando di evitare l’associazione con Antonio Bassolino e tutto l’apparato di gestione messo su dal centrosinistra in quindici anni. Un’interpretazione che ha una sua logica, certo, ma che sottovaluta molto la capacità del candidato governatore di innovare e plasmare, a suo favore, dei simboli comunicativi totalmente nuovi. L’uso dei simboli, nella comunicazione in generale e in quella politica nello specifico, è qualcosa di imprescindibile. Le lettere dell’alfabeto sono simboli, la bandiera tricolore è un simbolo, le elezioni stesse sono un simbolo. Attraverso queste ultime, infatti, il cittadino si sente partecipe della gestione democratica del potere, anche se razionalmente sa di non poterlo fare se non in minima parte, e solo in quell’attimo in cui entra nella cabina elettorale e mette la croce su un altro “simbolo” di partito.  

Ecco emergere la potenza del simbolo: la capacità di attivare una forte carica emozionale che stimola risposte per lo più irrazionali, scavando più nell’inconscio e arrivando al cuore (più che alle orecchie o alla mente) dei destinatari di un messaggio. Faccio un esempio pratico: la rivoluzione. Di per sé un simbolo che racchiude altri simboli. Potrebbero impiegarsi anni di dibattiti, versare mari d’inchiostro nell’intento di teorizzarne motivazioni per propagandarne il significato, ma mai si riuscirebbe ad eguagliare la risposta di adesione che provocherebbe una semplice manifestazione di massa con i cortei, i colori, slogan, e tutti gli altri linguaggi non verbali.

 Ho già avuto modo di sottolineare gli studi sui percorsi centrali e periferici della persuasione (nel saggio “L’altra faccia della luna”, da me scritto e pubblicato), e mi preme ribadire la straordinaria validità di quel messaggio (per approfondimenti rimando ai numerosissimi scritti e studi di Petty e Cacioppo). Le motivazioni intrinseche dei destinatari di un messaggio condizionano enormemente l’accoglimento o il rifiuto del messaggio stesso. La predisposizione all’ascolto, piuttosto che l’attenzione, la stanchezza fisica, il giudizio sulla fonte, la capacità di comprensione dei termini sono fattori fondamentali attraverso i quali la mente umana recepisce, codifica e categorizza un messaggio. E quando, come spesso accade, il destinatario dei messaggi politici non ha una grande predisposizione all’ascolto (dicono tutti la stessa cosa), oppure non è attento (tanto so già quel che dirà, è un comunista), o non è in condizioni fisiche ottimali o, ancora, non ritiene stimabile e affidabile la fonte di un messaggio, non c’è nessun ragionamento logico che tenga. Il messaggio sarà persuasivo solo se saprà attivare i percorsi periferici dell’attenzione, tra cui l’uso dei simboli.

Tutto questo per affermare che il simbolismo, in politica, conta eccome. E, ritornando al caso di specie, De Luca lo ha capito bene, reificando il simbolo nella sua persona.

Un uomo dalla tempra forte e dal carisma indiscutibile, che parla poco il linguaggio della politica (politichese) e che ha dimostrato di saper bene amministrare la cosa pubblica (da sindaco di Salerno, le statistiche lo riportano da sempre tra i più apprezzati amministratori d’Italia), non può che essere egli stesso un simbolo da ostentare. Una scelta che di certo non è universalmente valida, ma che nel contesto in cui De Luca si trova a competere è una scelta comunicativa che ha una sua logica. Il clima, difatti, è quello che è: la sfiducia nei partiti è tangibile, tanto a destra quanto a sinistra. La Regione Campania è diventata, da anni, simbolo della mal-amministrazione della cosa pubblica e di un inaccessibile “sistema” di potere politico e clientelare. La situazione interna ai partiti (PD in testa) è un quadro di disgregazione, contraddizione, correntismo esasperato.

In questo scenario la scelta di “stagliarsi dallo sfondo”, di uscire dal guado e proporsi come il cambiamento al di là dei partiti è una scelta, almeno comunicativamente azzeccata. Ne avran dolore i nostalgici della propaganda di partito, delle campagne elettorali vecchio stile, tutte falci e scudi crociati. L’effetto di personalizzazione della politica è, oggi, un dato di fatto. La fiducia del cittadino-elettore è maggiormente catturata da un buon amministratore, che ha conquistato sul campo i propri meriti e ha una certa vision personale del futuro, che ha personalità e magari una storia personale notevole, piuttosto che da un partito e i suoi scialbi e consumati rituali e simboli.

De Luca non si propone come leader di una coalizione, ma come leader tout court. E in ogni vera leadership politica accade che quasi mai la massa segue un leader per motivazioni razionali, ma perché esso è capace di suscitare intense risposte emotive. In un mondo in cui dominano insoddisfazione e impotenza ad agire in modo efficace rispetto agli obiettivi, più che agli sforzi personali ci si affida a simboli astratti e rassicuranti… e nessun simbolo è più rassicurante di quello del leader.

Dott. Marco Usai
Giornalista Pubblicista
Responsabile Comunicazione Politica
Giovani Democratici di Napoli

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